L’ignoto, il desiderio di conoscenza e il viaggio. Elementi imprescindibili per un esploratore, un pioniere che non conosce epoche e spazi e che si lascia guidare dalla curiosità e dalla voglia di sapere. «È rivolto anche a chi non si accontenta di guardare la televisione per illudersi di essere chissà dove, e ha bisogno di vivere direttamente le cose per farle sue, anche se è faticoso e pericoloso». È così che l’instancabile Giovanni Badino saluta il suo lettore ne Un color bruno (Edizioni Segnavia, pp. 128, € 9,50) e continua: «A chi pensa che una vita interessante sia quella spesa inseguendo i sogni, se possibile raggiungendoli, anche se così facendo sarà socialmente disapprovato».

Una vita intera potrebbe non bastare per stanare i segreti che la Terra custodisce dentro di sé.

Ed ecco che uomini speciali, dotati di particolare talento avventuriero, forieri non di sventure ma di scoperte eccezionali, si mettono a disposizione del sapere globale, in quest’epoca intrisa di viaggi onirici virtuali e pantofolai (ma accomodanti) viaggi organizzati.

Mentre scriviamo uomini assetati di esperienze esplorative sono sparsi per il pianeta a indagare i meandri reconditi di ghiacciai eterni, montagne incontaminate, isole dimenticate. Torneranno arricchiti e rinnovati, perché esperienze di questo tipo contribuiscono a rendere il nostro mondo quotidiano (intriso d’abitudine) un po’ meno significante.

È la metafora dantesca del bianco e del bruno, ritrovata dall’autore in un viaggio solitario in terre oltrefrontiera a guidarlo verso uno scritto carico di emozioni e di riflessioni che guardano all’esplorazione con occhio critico.

Fin dove può l’uomo invadere per desiderio di conoscenza effimera un ambiente inviolato? Dovrà, un giorno, render conto della scoperta, altrimenti senso avrebbe farla morire con sé?

È il dilemma del bianco che diventa bruno, del foglio candido che brucia con la fiamma. Dell’ambiente sconosciuto che diventa noto.

E se la natura avesse puntato a custodire segreti che all’uomo non possono essere rivelati? L’esploratore che vive un rapporto di rispetto con il buio non avrà paura a riconoscere che una porta, quel giorno, alla sua conoscenza può restare chiusa. Ma sbagliato sarebbe lasciare intentato un tentativo..

***

Intervista a GIOVANNI BADINO (direttamente dalla spedizione in Patagonia del team La Venta)

1970-2010. Quarant’anni di attività speleologica. Cosa “brucia” ancora?

La curiosità. C’è tantissimo da fare, anche nel minimo, attorno a noi. Percepire le note a cui ci siamo assuefatti, trovare novità in ciò che è così ripetuto che non lo si sente più. Capire come ha fatto ad arrivare lì, a far da sfondo alla nostra vita. Collocarci nel mondo. Siamo circondati di misteri, ma vi avanziamo in mezzo come sonnambuli.

In questo senso quarant’anni sono pochissimi, ho appena imparato alcune cose e ora ho fretta di usarle per impararne altre. Prima di dover restituire gli elementi che mi compongono.

Esplorare è anche voglia di conoscere l’ignoto, predisposizione ad affrontare il rischio per scoprire luoghi dove altri non sono ancora arrivati. Qual è il sogno che ancora stai inseguendo?

Sogni ne ho tanti, ma tendono ad accavallarsi. Ecco, vorrei essere un po’ più concludente e comunicativo, in realtà ho pubblicato pochissimo degli ultimi due decenni delle mie ricerche, quelle fatte in giro per il mondo. È come se avessi visto cose che mi hanno fatto ammutolire. Ho scritto molto, ma è tutta materia non pubblicata, che aspetta. Dialoghi, poemi, libri… Tutto in attesa. Mi spiace un po’, in certe sere, sentirmi raccontare episodi, spiegazioni, enigmi, sentire che illuminano chi mi ascolta, ma non aver ancora avuto il tempo o la voglia di scriverle. Si è tutto troppo accavallato, troppo frenetico.

Sogno di concretizzare. O forse in realtà sogno soltanto un ufficio di segreteria, chissà…

Nell’introduzione del capitolo Science and Exploration, in Commitment (edito da Mondadori), si legge: «Esistono uomini, protagonisti per coraggio e genialità, la cui dedizione riempie il valore di intere esistenze. Ricercatori scientifici, esploratori, geologi. Uomini che vivono per il loro lavoro, non conosciuti da tutti – eppure, questo lavoro è dedicato a tutti. Uomini che scendono nel cuore della terra e tra i ghiacci, lontano dalla civiltà – eppure, questo lavoro è dedicato alla civiltà. Questo lavoro è dedicato al nostro pianeta sempre a rischio: perché il nostro pianeta, come ogni bene più prezioso che possediamo, deve essere protetto». Il riferimento è all’associazione La Venta. Una sorpresa..

Un po’ sì, un po’ no. Io sono fisico, e ho sempre partecipato a ricerche in ambiti di fisica della radiazione e cosmica, dove ho conosciuto tanti ricercatori, alcuni molto bravi e famosi. Ecco, trovo che siano molto simili a certi speleologi che dedicano la vita a disegnare i reticoli sotterranei, grosso modo le stesse persone. È che non tutti gli speleologi sono così, intanto, e soprattutto molti di quelli che lo sono si sentono soli, isolati, diversi. Quasi complessati per il fatto di avere questa passione e saperla inseguire.

Il punto chiave è che la speleologia di ricerca, come l’alpinismo di ricerca o altre attività simili, richiede una certa dose di inadattamento al mondo quotidiano. Devi essere poco adatto al quotidiano perché tu devi riuscire a considerarlo una questione da indagare, da discutere, da storicizzare, non il semplice sfondo della tua vita in cui seduto in silenzio. Ma a differenza della ricerca scientifica, che pure richiede un simile inadattamento, queste attività non sono socialmente approvate. Voglio dire che, come ricercatore scientifico, gli imbelli diranno di te: «questo che fa cose che noi non possiamo capire e che un giorno saranno utili…», ma se fai cose simili cercando grotte, ti daranno del perditempo, della talpa. Il guaio è che molti finiscono per credere di esserlo, e quindi proseguono l’attività ma sempre con un po’ di complesso di colpa. La Venta è un po’ un’eccezione, stiamo insieme per farci forza l’un con l’altro, e ci riusciamo!

In questo senso io sono molto fortunato, non ho complessi di colpa, sono socialmente approvato e assai contento; e quindi sto cercando di fare, ormai da decenni, della psicoterapia a tutti quanti. «Coraggio ragazzi, che quel che facciamo è essenziale. Non sappiamo bene perché, ma lo è».

Esplorazione e documentazione. Qualche passo è stato fatto negli ultimi anni. Qual è quello che ritieni più incisivo? Ripensare le grotte..

Bisogna aumentare il livello di attenzione ai dettagli. Far confluire le pulsioni di chi fa ricerca scientifica con chi vuole esplorare la grotta nuova. Completare la figura dello speleologo, che non è un percorritore di grotte, né uno che si limita a trovarne di nuove. È, deve essere, uno che ne svela alcuni aspetti nascosti, siano essi la forma, o il vento, o l’infrasuono o la vita o che altro. E li svela a tutti, non solo ai suoi colleghi.

“Speleologo” è una figura cangiante, che muta col mutare delle conoscenze perché è uno che ripensa le grotte.

A fine 2008 mi hanno invitato a Oxford a parlare di grotte, su un tema libero, e io ho fatto un seminario sull’Hidden Side of Underground World, sulla faccia nascosta del mondo sotterraneo. Per quel che ne so io, naturalmente. Ecco, è questo che stiamo cominciando a intravedere e, con immensa sorpresa, a scoprire che può anche essere di estrema utilità nel quotidiano. Argomenti meno utili delle grotte nel ghiaccio o della micrometeorologia delle grotte nei calcari erano difficili da pensare, e invece ora stanno esplodendo: dalla prima pare dipendere la stabilità dei ghiacciai, in particolare della calotta della Groenlandia, dalla seconda le modalità con cui il clima esterno lascia tracce indelebili nel mondo sotterraneo. Ma non bisogna preoccuparsi del rischio di essere utili: ecco che già premono altri argomenti assurdi, come il timbro di voce delle grotte e le loro nuvole interne. Forse ho una ventina d’anni di lavoro tranquillo prima che si scopra che sono essenziali chissà per che diavolo.

Approccio al mondo sotterraneo. L’atteggiamento esplorativo può essere paragonato al corteggiamento?

Sì, anzi, recentemente ho scritto proprio un pezzo su questo. Tu hai accesso al mondo sotterraneo come invitato, devi farti accettare. Non hai speranza di importi ad esso perché, abbiamo scoperto negli anni, le grotte sono troppo più grandi di noi. Ti devi mettere in un atteggiamento amoroso, faticare, disciplinarti, farti accettare pian piano, sino a che ti dischiudono le porte. Il mondo sotterraneo è femminile, per entrarvi bisogna essere sereni, sorridenti e leggeri. Puntare a fondersi con esso, non a penetrarlo.

Abbandonarsi.

Questo ha delle conseguenze interessanti anche sulle tecniche di progressione. Ora ho circa il doppio dell’età di chi, quando ho iniziato, consideravo troppo vecchio per poter andare in grotta. E siamo in parecchi in questo stato anagrafico. Eppure sottoterra continuiamo a scavalcare tanti più giovani. Credo sia proprio legato alle modalità del movimento, a come spendiamo le energie. Alla capacità di staccarsi dall’ingresso e abbandonarsi al buio protettivo. In tanti, invece, all’ingresso attaccano un elastico che più vanno giù, più si tende, li richiama in superficie. È ovvio che loro fanno cento volte la fatica che faccio io. E si stancano dove io riposo, anche se sono molto più forti di me.

Perché Un color bruno?

Stavo facendo un giro nell’interno del Brasile, qualche anno fa. Mi è capitato spesso, da quando ho iniziato a viaggiare in quel mondo, nell’86. Ogni tanto mi convoca a fare una cosa che non capisco bene, ma so che devo andare, e andarci da solo. Sono andato a fare un giro fra il Goyas, Manaos e poi Acre in cerca di una catena montuosa – che non sono riuscito a raggiungere – e poi avanti sino a Macchu Picchu. Non capivo gran che, mi succedevano un sacco di cose, ma vedevo benissimo che erano esempi in cui dovevo trovare il bandolo. A un certo punto l’ho intravisto, e ho preso a scrivere.

Riguardava il problema centrale di chi fa esplorazione, la sua responsabilità individuale nei confronti di ciò che esplora. Non mi interessava l’oggetto dell’esplorazione, ma proprio il modo e le conseguenze. E mi sono reso conto di come tanti episodi che avevo vissuto recentemente erano pezzi di un unico puzzle, che si era andato componendo dentro di me. L’azione dell’esploratore, mi hanno spiegato, non deve limitarsi al dato geografico, al rivelare qualcosa, ma deve anche dare dei modi di lettura di ciò che si è svelato, in modo che sia possibile proteggerlo.

Per molti versi è un libro importante, proprio importante. Per ora non ha ancora trovato la sua strada, ma non ho fretta, neppure io l’ho ancora trovata. La cercheremo insieme.

La citazione del verso di Dante «come procede inanzi dall’ardore per lo papiro suso un color bruno, che non è nero ancora e il bianco more», arriva però da più lontano, mi aveva colpito molti anni fa e avevo capito che l’avrei utilizzata, un giorno. Del resto ce ne sono ancora altre, che aspettano.

Mi viene in mente quanto Borges diceva della Commedia, nei suoi ultimi scritti: lì dentro c’è assolutamente tutto. In particolare in quei versi mi aveva colpito l’abilità trascendente con cui Dante ha descritto l’avanzare di una fiamma sulla carta: in pochissime parole, folgoranti, perfette, cantabili.

Non l’ha descritta, ma ha estratto da noi l’immagine della fiammella che avanza, un’immagine che per rendere in modo adeguato richiederebbe pagine e pagine di descrizioni. In questo è assolutamente unico, e sovrumano. Anzi, tras-umano.

©Marilena Rodi

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